Assistenza, Covid-19

SOSTENI…AMO! Per non lasciare solo chi si prende cura degli altri

E’ una delle più belle compensazioni della vita, che nessuno possa sinceramente cercare di aiutare un ‘altra persona senza aiutare se stesso.
Ralph Waldo Emerson

Molte sono le professioni di aiuto: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori, maestri … non basterebbe l’intero articolo per elencarle tutte. Quando, per motivi personali o meno, veniamo in contatto con queste realtà molto spesso ci chiediamo quale possa essere stata la spinta che ha guidato la scelta di questi professionisti di dedicare i propri sforzi agli altri.

Il senso comune traduce spesso questa importante riflessione con la semplice domanda: “ma chi te lo ha fatto fare?”

Riflettere sulla motivazione per cui una persona decide di intraprendere una professione che inevitabilmente porta a doversi confrontare con la sofferenza degli altri non è cosa di poco conto. Prendersi cura di tale motivazione, rendendola quanto più possibile cosciente e mantenendola viva, è proprio uno dei modi per aiutare questi professionisti nello svolgimento del proprio lavoro.

Sicuramente a questa semplice domanda chi lavora nel sociale risponderà in modo del tutto personale. Ciascuno ha dentro forte e chiara quella risposta e, anche se la stanchezza non la fa comunicare agli altri, essa è faro nella notte quando il mare è in tempesta. Cosa può succedere quando questa domanda comincia a trasformarsi in un graduale e sempre più accorato “ma a me, chi me lo ha fatto fare?” Questi momenti di sconforto sono esperiti da tutti quelli che svolgono una professione sociale perché, di fronte alla vastità delle sofferenze umane, spesso ci si sente piccoli e senza strumenti. Pensiamo allo stato d’animo dei medici nell’emergenza sanitaria; semplicemente uomini che hanno fatto cose straordinarie e non supereroi come l’immaginario collettivo li ha forzatamente dipinti. Questi professionisti nello svolgimento del proprio lavoro hanno dovuto fronteggiare le carenze di un sistema con le poche risorse a disposizione e spesso attingendo al massimo alle loro capacità personali sia professionali che emotive.

Ma quando le energie si esauriscono, cosa accade? La situazione della pandemia è immagine perfetta per spiegare quello che ormai da parecchi anni è stata concettualizzata come “Sindrome da Burnout”.

Tale condizione è un fenomeno che ha iniziato ad attirare l’attenzione degli studiosi intorno agli anni ‘70 quando Freudemberger (1974) ha descritto per primo la situazione lavorativa in cui le persone che si dedicano a professioni di aiuto possono venire a trovarsi proprio quando gli obiettivi e le richieste lavorative superano le risorse personali. Tale concezione è stata poi estesa ad altri contesti lavorativi, rimanendo però strettamente legata a quei lavori in cui la componente relazionale prevale. La sindrome di Burnout è un processo che porta ad un graduale logoramento psicofisico se non si interviene tempestivamente; tra i sintomi maggiormente descritti vi sono l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione ed una sensazione di ridotta realizzazione personale (Maslach e Jackson, 1986). Il lavoratore dunque si distacca dal proprio lavoro divenendo sempre di più cinico e negativo e, nei casi più gravi, può andare incontro all’insorgere di veri e propri quadri psicopatologici come depressione o ansia. E’ un fenomeno, dunque, che nelle sue potenzialità investe l’intero sistema della persona andando ad interferire, peggiorando l’intero ecosistema relazionale in cui questa è inserita.

Lo stress nelle professioni di assistenza è sempre presente per la natura stessa del lavoro; ma come possiamo fare per impedire l’insorgere nel lavoratore di tale sindrome?

Si può agire su diversi livelli: uno prettamente organizzativo e di competenza delle strutture ed un altro più emotivo e di sostegno ai lavoratori. A livello organizzativo si tratterebbe di mettere in atto tutte quelle precauzioni, dispendiose economicamente ma necessarie, che vanno ad agire sui fattori maggiormente associati all’insorgere della sindrome stessa. Ad esempio si dovrebbe evitare una turnazione lavorativa troppo instabile e con all’interno un numero eccessivo di turni notturni ed un carico lavorativo troppo grande per il soggetto; bisognerebbe dunque in ogni modo garantire un numero di operatori adeguato al numero di utenti per permettere una maggior distribuzione e condivisione delle responsabilità. E’ già chiaro quanto la struttura organizzativa dell’ambiente lavorativo possa interferire in bene o in male sulle interazioni che in esso si svolgono e sul modo in cui un lavoratore porta avanti i compiti ad esso affidati.

In generale, nel momento in cui l’ambiente lavorativo smette di considerare l’aspetto umano del lavoro il rischio di burnout cresce (Mordini et al., 2013).

Molte sono le associazioni di volontariato o i servizi che portano avanti azioni mirate per le popolazioni più a rischio; ma non si dovrebbe smettere di avere nella mente chi di quegli utenti si prende cura tutti i giorni. Certo, migliorando la condizione degli utenti, si alleggerirà il carico lavorativo contribuendo al miglioramento della situazione dell’operatore ma questo purtroppo molte volte non basta.

Per non dimenticarsi del lato umano di questo lavoro bisogna proprio prendersi cura di chi questo lavoro lo svolge quotidianamente.

Una delle prime cose da fare è quella di creare un ambiente capace di accogliere le eventuali difficoltà degli operatori che non andrebbero mai lasciati soli di fronte all’immensità del proprio compito. Chi coordina determinate strutture è necessario abbia in sé sviluppato quell’ascolto empatico e riflessivo capace di cogliere sul nascere i campanelli di allarme prima che la situazione si logori del tutto. Questo sostegno permette anche di restituire al lavoratore l’immagine della complessità del lavoro che sta svolgendo contribuendo quindi alla percezione di essere riconosciuto nel proprio valore e nelle proprie competenze.

Infine, sarebbe auspicabile fornire agli operatori momenti di condivisione attraverso alcune riunioni periodiche di sostegno da svolgere in gruppo e con la presenza di professionisti qualificati. Tali riunioni saranno utili sia per contenere le angosce e le paure degli operatori ma anche per analizzare, in un clima di fiducia e di collaborazione, come si reagisce nelle situazioni più difficili sia all’interno delle relazioni con gli utenti che in quelle tra colleghi.

L’obiettivo è dunque quello di sviluppare una forte consapevolezza rispetto ai propri modi di agire e di reagire; tale “agire consapevole” è risultato essere (Mordini et al., 2013) infatti la caratteristica personale maggiormente legata all’abbassamento dei livelli di Burnout anche in presenza di un alto grado di frustrazione.

Quello che conta è l’avere nella mente chi si occupa degli altri, contribuendo alla creazione di un ecosistema che si prende cura di ogni componente che ne fa parte non lasciando solo nessuno.

Combattendo la solitudine, che spegne la capacità di pensare e di reagire di fronte alle situazioni difficili, e sostenendo anche solo una persona si potrà dunque cambiare il destino di molti.

Dott.ssa. Maria Elisei

Bibliografia

Fredemberger H.J (1974). Staff Burnout. In Journal of Social Issues, 30 (1), p. 159-165.

Maslach C., Jackson S. E. (1986). Maslach burnout inventory manual (2nd ed.). Palo Alto, CA: Consulting Psychologists Press.

Mordini V., Castellucci V., Giardi W., Tripaldi S. (2013). Burnout, empatia e regolazione emotiva: quali relazioni. In Cognitivismo Clinico (2013) 10, 2, pag. 185-199.

 

15/07/2020

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